Sicilian ghost story: una fiaba noir in memoria del piccolo Giuseppe di Matteo

Aveva solo 15 anni Giuseppe di Matteo quando, l’11 gennaio 1995, venne strangolato e sciolto nell’acido dal clan dei fratelli Brusca a Capaci. La sua colpa? Essere il figlio di un pentito di mafia. Ecco il grembo creativo in cui si è sviluppata l’idea di “Sicilian Ghost Story”.
Grotte, rapaci, animali notturni, pozzi, cani paurosi come mostri da cui fuggire; elementi atavici di fiabe tinte di paure. Immerso in una visione arcaica e primordiale, “Sicilian Ghost Story” prende le mosse non da una storia di fantasmi (come invece suggerirebbe il titolo), ma di orchi e mostri reali; creature esistenti nate dalla fucina dell’odio accecante e della criminalità organizzata che macchiano di sangue le pagine della nostra storia. Aveva solo 15 anni Giuseppe di Matteo quando, l’11 gennaio 1995, venne strangolato e sciolto nell’acido dal clan dei fratelli Brusca a Capaci. La sua colpa? Essere il figlio di un pentito di mafia. Ecco il grembo creativo in cui si è sviluppata l’idea di “Sicilian Ghost Story”. È la lotta alla malavita sotto forma di arte ad aver spinto Fabio Grassadonia e Antonio Piazza a riprendere tra le mani la propria cinepresa per raccontare una nuova storia, tanto poetica, quanto cruda e dolorosa (sebbene non così emotivamente lacerante come “La paranza dei bambini” di Claudio Giovannesi).
Nelle mani dei due registi anche un evento di cronaca come quello del giovane di Matteo prende nuove forme vestendosi di fiaba nera; fiaba in cui la strega cattiva si chiama ora mafia e i due protagonisti, Luna e Giuseppe, sono due giovani innamorati separati da un destino infausto e crudele. Calati in un ambiente pieno di simboli, e immortalati da Luca Bigazzi in una fotografia ora accesa, ora pulviscolare e ombrosa, Luna e Giuseppe vivono uniti, eppure distanti. Le loro esistenze sono legate da un montaggio parallelo che mese dopo mese, registra le fatiche, le sfide interne, e le lotte intraprese con il mondo circostante nella speranza di potersi ricongiungere. Chiuso in una casa abusiva Giuseppe sconta la propria prigionia per una colpa che non ha, mentre Luna corre, piange, sogna alla presenza di uno spirito del luogo che, come un Ariel shakespeariano, si insinua tra gli alberi siciliani dominando la scena. La macchina da presa spia i ragazzi in un gioco di sguardi pronto a tramutarsi in gioco di ricerca. Una caccia al tesoro ammantata di paura, nel cuore di una Sicilia oscura, tra le pagine di una favola nera generata dalla triste realtà.
“Per me se ti sogni una cosa vuol dire che può esistere” scrive Luna nella lettera d’amore lasciata a Giuseppe poco prima che venisse rapito da Cosa Nostra. Ma tra quei luoghi riletti sotto la lente del fiabesco, non c’è spazio per sognare. Quello in cui i due giovani si trovano a vivere è un mondo molto più cupo e claustrofobico, sia nello spazio che nella mente, rispetto a quello ritratto in altri film a sfondo mafioso e con protagonisti adolescenti e bambini come “Io non ho paura” di Gabriele Salvatores, o “La mafia uccide solo d’estate” di Pif. La cronaca nera si piega alla forza del realismo fantastico così da colpire più forte e coinvolgere la fantasia e il cuore, oltre che gli occhi e la mente dello spettatore. È un racconto di formazione infuso di amore, tragedie, e morte quello di “Siclian Ghost Story”. Il film gioca su confini da superare, limiti da violare e coppie di opposti che si attraggono e lottano tra di loro (sogno-realtà; presenza-assenza; natura-uomo) nel contesto di una realtà ibridata tra tempo reale e tempo ricostruito.
Eppure, se l’impianto visivo qui costruito è magnificente, quello più propriamente narrativo e attoriale depotenzia la bellezza di un film capace di far riflettere e commuovere. A sorreggere l’intreccio sono eventi mal congiunti tra di loro e dispersivi, che lanciano input interessanti ma non sempre ampiamente spiegati o interamente sviluppati. La ricerca di una vena realistica da apportare al proprio prodotto stride inoltre con un’impostazione scenica e performativa dai tratti teatrali, e per questo forzata e macchinosa. La tensione domestica e le continue intimidazioni non riescono dunque a colpire al cuore, finendo per mostrarsi nella loro natura fittizia e precostruita, e perdere così di poesia e spontaneità.
Amori adolescenziali, primi batticuori, famiglie che si oppongono alla forza del sentimento: Luna e Giuseppe sono dei novelli Romeo e Giulietta. Ma nella Sicilia della malavita, delle lotte di mafia la tragedia sentimentale va a braccetto con quella di una regione intera. Chi in Sicilia ci nasce, o ci cresce, vede il suo carattere, o il suo pensiero, forgiato da quei paesaggi, da quelle città che sanno di bellezza e arte, ma che sotto sotto vivono di terrore. Vi sono due tipologie di cittadini che da questa terra sorgono: chi si ribella e chi si adegua al sistema. I registi sanno bene quanto fondamentale sia il territorio immortalato; non un semplice sfondo, o scenario da inquadrare, ma abile artigiano che modella i propri abitanti, infondendo loro pensieri ed emozioni. E così Piazza e Grassadonia abbassano spesso la propria cinepresa; le loro sono riprese rasoterra che uniscono i personaggi alla terra che calpestano, o al cielo su cui si stagliano. Primi piani di uomini alternati a dettagli di animali, fiori, gocce d’acqua che ricordano lacrime pronte a solcare il viso. Un’appartenenza eterna alla propria terra qui rimarcata da accenti volutamente caricati, ed espressioni dialettali mai tradotte. Quando a tale semplicità si affiancano però certi virtuosismi stilistici e tecnologici (l’uso di “fish-eye”, droni, o grandangoli) se da una parte si vuole esaltare la bellezza del luogo e il sentimento di oppressione che colpisce i due protagonisti (in particolare Luna) dall’altra si destabilizza lo spettatore, allontanandolo da una purezza di sguardo tipica dei giovani. La stessa interpretazione di un evento così tragico attraverso una chiave di lettura favolistica si adegua allo sguardo di chi, nella propria ingenuità e natura sognatrice, non è stato ancora toccato dalla cattiveria umana.
Uno sguardo di giovani che sognano di scappare via, come cavalieri coraggiosi, o caparbie eroine verso mondi tutti loro; mondi fatti di sogni e speranze in cui la cattiveria non può accedere. Mondi che solo lo spettatore, osservatore privilegiato e testimone di una vicenda che non deve più ripetersi, può visitare e ammirare; un pubblico che silenzioso, come la civetta che domina la cantina di Luna, tutto vede e tutto sa, ma che a differenza del rapace deve urlare, e con essa ribellarsi, denunciare, affinché tragedie come queste rimangano chiuse nelle pagine delle fiabe, e non in quelle di storia.
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