Storie di Paranza: l'adolescenza perduta di tutte le periferie del mondo

Dopo le convincenti prove di Alì ha gli occhi azzurri e Fiore, Claudio Giovannesi, appoggiandosi al robusto testo di Roberto Saviano, torna su territori cari quali l’adolescenza, la perdita dell’innocenza, la criminalità precoce.

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Storie di paranza
Ci sono paranze che di prima mattina scaricano il pesce per i mercati rionali di Napoli; ci sono paranze che trasportano droga da smerciare attraverso le reti di altre paranze, quelle composte da uomini e donne a servizio dei clan camorristici e, da qualche tempo, da ragazzini precocemente iniziati ai cartelli criminali. Roberto Saviano ha descritto le paranze dei bambini in un fortunato romanzo, che con Gomorra costituisce un dittico sul mondo delinquenziale che caratterizza i quartieri più disagiati di Napoli, avamposti della criminalità in cui la legge latita e le brave persone subiscono. La paranza dei bambini, il testo che precede il film di Giovannesi, nasce dall’urgenza di portare in superficie un contesto che - come spiega lo scrittore - nei vicoli di Napoli vede l’età degli affiliati ai clan camorristici drasticamente abbassata, dopo la marginalizzazione delle vecchie famiglie, sostituite da giovani imprenditori del crimine il cui obiettivo è solo fare soldi, ottenere potere e regnare sulla città. Scrive Saviano: “Se la consuetudine criminale, ovvero l’esistenza di un know how criminale diffuso, è alla base della presenza delle paranze di giovanissimi a Napoli, è vero anche che l’adolescenza distrutta dalla fame di potere e soldi è un tratto comune di tutte le periferie del mondo”. È ciò che da tempo succede non solo nelle bolge degradate delle megalopoli del sud del pianeta, ma anche tra le strade di New York, Parigi o Londra. Non c’è giorno che nella capitale britannica non si consumino crimini efferati che vedono protagonisti minorenni organizzati in bande. Ma colpiscono altri due dati interessanti: il primo è da ricercare nell’inadeguatezza della facile equazione che associava fino a poco tempo fa miseria culturale ed economica alla criminalità e che il cinema ha ben rappresentato, dagli slum di Mumbai alle favelas di Rio; il secondo è la frequente mancanza di moventi che giustifichino la violenza con cui agiscono gli adolescenti in branco. Fenomeni non nuovissimi, pensiamo ai tre episodi che costituiscono I vinti: eravamo nel lontano 1953 e Antonioni già ritraeva una gioventù per nulla indigente ma assetata di denaro superfluo e fama transitoria, banale e senza freni morali, tanto da cancellare una vita con sorprendente indifferenza. Se allora poteva sembrare una provocazione, visto il contesto storico (il Neorealismo aveva raccontato una violenza giustificata dalle macerie del dopoguerra) e sociale (Antonioni si inoltrava nelle ombre della futura classe dirigente, proprio in prossimità del boom economico), oggi si fa saggio sociologico, premonitore e lucidissimo nell’identificazione del “deserto emotivo” giovanile (per dirla alla Galimberti) che avrebbe accompagnato la trasformazione del nostro paese (e non solo) sotto gli effetti del consumismo.

Canta Napoli
Pur nella sua universalità, il film di Giovannesi, scritto con lo stesso Saviano e lo sceneggiatore Maurizio Braucci, non può prescindere da Napoli, tanto quanto Los Olvidados (I figli della violenza, 1950) di Luis Buñuel non poteva prescindere da Città del Messico o City of God (La città di Dio, 2002) di Fernando Meirelles da Rio de Janeiro. I quartieri partenopei dove è alta la dispersione scolastica, dove la legalità è un concetto estraneo e le attività lavorative devono spesso fare i conti con le estorsioni, dove il mercato degli stupefacenti dilaga e, in coincidenza con un crescente tasso di disoccupazione, diventa una strada accattivante verso un veloce guadagno, fanno da sfondo antropologico non secondario. I protagonisti Nicola, Biscottino, Tyson, Lillipop, O’Russ e Briatò, sono figli della violenza e vittime di modelli massificati e omologati su pochi concetti (ma chiarissimi in mancanza di alternative), che sono alla base di miti che sbaglieremmo a definire nuovissimi, ma che attecchiscono oggi più che mai nella povertà culturale: denaro e fama a qualsiasi costo, essere riconosciuti anche in assenza di talenti e il lusso esibito come forma di potere. I ragazzini incoscienti di Giovannesi sono il frutto amaro degli angoli abbandonati della loro città e il regista li sorprende in fragranza di reato già dalla prima bella sequenza del film, quando rubano un albero di Natale, proprio come nel bel documentario di Cyop&kaf Il segreto (2013). Si è detto molto sulla perdita dell’innocenza di questi bambini coesi in una paranza armata, ma in verità poco innocenti già lo sono. Il percorso verso la formazione delinquenziale (come fu anche per Alì in Alì ha gli occhi azzurri) è la diretta conseguenza di un’innocenza già perduta, che poi si palesa tragicamente nella sequenza emblematica della raffica di proiettili sparati su un terrazzo verso le antenne paraboliche per provare l’ebrezza del fuoco e sotto un cielo che si colora di altri fuochi, quelli artificiali. Immagini che fanno rima con l’eccitazione dei due disgraziati diciottenni che in Gomorra provano i kalashnikov in riva al mare. I sacrifici di Nicola, che deve rinunciare al rapporto con la fidanzatina Letizia perché vive nei Quartieri Spagnoli, ovvero in territorio nemico, o all’amicizia con il sodale Agostino, le fratture nella stessa paranza tra amici di infanzia, sono il punto di non ritorno dopo il salto a piedi pari nel mondo dei grandi, la conferma della perdita dell’incanto irreversibile quando la guerra tra clan inizia a strozzare il gioco “a fare i boss” e il sangue prende a scorrere nei vicoli, per cui dare la morte o morire è messo in conto e non è più eccezione tragica. Giovannesi ha la capacità di avvicinare lo spettatore a personaggi che sono in piena trasformazione, che hanno già un passato difficile e che tanto hanno già perduto (vedi Fiore nel film precedente). Ciò detto, nel racconto di questa ascesa criminale fa più impressione il fratellino di Nicola, poiché il suo sguardo è a un passo dall’essere sverginato; osserviamo per frammenti la metamorfosi del suo immaginario, la mistificazione del crimine, l’aberrazione della realtà che inizia a mitizzarsi: eccola dunque la perdita dell’innocenza manifesta e angosciante, ciò che i fratelli Frazzi avevano raccontato nel 2004 con Questi bambini, film imperfetto ma che riusciva nell’intento di accordare impietosamente l’infanzia all’età adulta senza passaggi intermedi: un balzo scioccante verso l’inferno, la cronaca di un’educazione al male senza insegnamenti diretti ma per emulazione. Questi e quelli, bambini che guardano da una lente deformante un orizzonte stretto e che propone come unico paesaggio possibile la miseria umana.

 Alessandro Leone, 

Il Ragazzo Selvaggio, anno XXXV, n. 134

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