Sing Street: i sogni si realizzano a tempo di rock

Uno dei più grandi insegnamenti lasciatoci dai “Goonies” è quello di tenere vivo il nostro bambino interiore. Solo così saremo in grado di affrontare a testa alta le ingiustizie e brutture della vita. Un fanciullino nutrito non a merendine, ma di sogni e ambizioni. Fa niente se sei un po’ strambo o timido, impacciato o silenzioso; prendendo in prestito la massima disneyana del “se lo sogni, puoi farlo” tutti, con un po’ di coraggio e tanta curiosità, possono raggiungere i propri obiettivi.
Il film Sing Street è una ricetta ben riuscita perché ha saputo dosare, con dovizia e attenzione, ogni ingrediente del racconto di formazione, assimilandolo e applicandolo a un mondo musicale abitato da sogni e primi amori. Tra strascichi del classico “coming of age”, anni ’80, musica rock, desideri e illusioni, c’è tutto un mondo di possibilità a circondare l’adolescente Conor. In una Dublino lontana dalle terribili conseguenze dei The Troubles irlandesi, il ragazzo inizia ad avvicinarsi alla musica e, penna alla mano, creare un universo a parte in cui rifuggire dalle delusioni di quello reale grazie alla forza delle proprie canzoni. Tenta di evadere, Conor, dalle tensioni famigliari e dai problemi economici, ma soprattutto tenta di conquistare Raphina, sguardo etereo e aspetto da quadro preraffaellita. Il suo progetto? Formare una band e chiamarla “Sing Street”. Il desiderio di ribellione, cuore pulsante del genere rock ‘n’ roll, si insidia in seme tra le pareti della scuola cattolica frequentata da Conor e i suoi amici. A Synge Street la contraddizione la fa da padrona. Professori/sacerdoti che fumano in classe e ragazzi lasciati allo sbando sono i portatori sintomatici di un’ostentazione esacerbata dell’apparenza e dell’ipocrisia. Tra le mura del Synge Street i ragazzi devono comportarsi come uomini forti, senza trucco e con scarpe nere ai piedi. Lo scopo a loro richiesto non è studiare, bensì esibire una mascolinità che a molti ancora non appartiene. Se il rock è dunque sintomo d’insofferenza alle norme, e Synge Street il terreno per far sorgere una ribellione latente nei suoi studenti, il vero strappo alle regole è paradossalmente da ricercarsi nella natura dei componenti della band costituita da Connor. Non più bulli e ribelli, ma nerd e secchioni; ragazzi che le regole, più che romperle, sono abituati a seguirle.
Presentato al Sundance Film Festival e alla Festa del cinema di Roma, il film diretto da John Carney (già autore di pellicole musicali come il cult Once e Tutto può cambiare) ricorda, edulcorandolo, un altro musical giunto nelle sale sempre nel 2016: La La Land di Damien Chazelle. In entrambi i film musica e sogni, amore e passione danzano insieme in un ballo vorticoso pronto a crollare sull’orlo dei rapporti famigliari. Una voragine interiore si apre silente in Conor tanto da fagocitare ogni suo legame affettivo e di autostima. L’adolescenza è, dopotutto, una fase strana della nostra vita; è un periodo fatto di continue alternanze, una montagna russa emozionale instabile e destinata a incepparsi a ogni giro della morte. Ecco perché è giusto che vi siano film come Sing Street capaci di parlare al nostro bambino interiore e dirgli che, se veramente lo vogliamo, nulla e niente potrà ostacolarci nel raggiungimento dei propri obiettivi; nemmeno il destino.
Il film di Carney si incammina con sicurezza lungo il percorso tracciato da School of Rock per poi allontanarsi e seguire vie parallele. Che l’opera si discosti dalle solite commedie musicali è facilmente percepibile sin dalle sue battute iniziale. Quello creato dal regista è un universo del tutto rinnovato, non tanto tematicamente quanto nell’onestà della ripresa e dei sentimenti trasmessi, supportato da tratti inconfondibili della cultura anglo-irlandese e da citazioni mai fuori luogo (da Ziggy Stardust a Phil Collins). Vige un’attenzione maniacale nella costruzione della scenografia, portatrice sana di emozioni e sentimenti non detti, in cui ogni dettaglio compare perfettamente al suo posto come una nota all’interno di uno spartito. E così anche un poster come quello di Freud denota e amplifica l’umore dominante sulla scena, reduplicando metaforicamente l’immagine di Conor che apre il proprio cuore al fratello, proprio come farebbe un paziente sul divanetto dello psicanalista. Il tutto amalgamato da uno stile dimesso e mai invasivo a opera di Carney, la cui cinepresa tende a nascondersi dietro a una spontaneità di ripresa pari a quella dei ragazzi durante la creazione dei loro pezzi. Una registrazione degli eventi timida, come timido e sommesso è inizialmente il giovane Conor.
Quella con la musica è per il protagonista una scoperta epifanica; una passione improvvisa accesa dalla fiamma di un altro fuoco: quello del primo amore. Un sentimento puro, di quelli che ti fanno venire le vertigini e le farfalle nello stomaco, mentre il cuore ti batte all’impazzata e il sonno svanisce. In questo Bildungsroman del Ventesimo secolo, a fare da mentore al giovane Conor è suo fratello Brendan. Come un moderno Virgilio, il ragazzo accompagna il fratello tra i cerchi dell’olimpo del rock, dispendendo consigli e ampliando la sua limitata conoscenza musicale. Una guida sicura, affidabile, che reciderà le fila che tenevano imprigionato Conor all’ambiente domestico soffocante, aprendogli le porte della libertà e dell’età adulta. Il mare in tempesta in cui il ragazzo naviga insieme a Raphina è la perfetta metafora del futuro verso cui si sta incamminando: onde alte e burrascose sono pronte a colpirlo, ma se continuerà a nutrire e alimentare il suo fanciullo interiore, pieno di ottimismo e sogni da realizzare, ad accoglierlo ci sarà sempre un arcobaleno luccicante. E così, se la vita, come il bullo che perseguita Connor e i suoi amici, continua a fare del male, è diritto di ognuno ribellarsi perché ciò che stiamo vivendo “è solo in grado di fermare le cose, non crearle”. Come ci insegna Sing Street, sta a noi generare dal nulla un mondo diverso, più rock, più vivace, più adatto a noi. Insomma, più vicino ai nostri sogni.
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